Visioni – V mensile: La paideutica del remake

È un periodo difficile quello che sta vivendo l’industria del videogioco, in questi ultimi anni. Al di là degli effetti, ancora percepibili, della crisi post Covid, al di là dei licenziamenti di massa, al di là delle fusioni, delle acquisizioni e delle chiusure, quello che maggiormente sembra spaventare tutti è la crisi delle idee. Il […] L'articolo Visioni – V mensile: La paideutica del remake proviene da Vgmag.it.

Mar 5, 2025 - 18:39
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Visioni – V mensile: La paideutica del remake

È un periodo difficile quello che sta vivendo l’industria del videogioco, in questi ultimi anni. Al di là degli effetti, ancora percepibili, della crisi post Covid, al di là dei licenziamenti di massa, al di là delle fusioni, delle acquisizioni e delle chiusure, quello che maggiormente sembra spaventare tutti è la crisi delle idee. Il trend dei remake sembrerebbe, a tutti gli effetti, o almeno così leggo in giro, il sintomo di una sindrome gravissima, e cioè il deficit di creatività, che ha colpito e sta continuando  a colpire quegli scansafatiche dei developer. Se mettiamo da parte il culto dell’odio e gli allarmismi da social media, mi verrebbe da dire che questa moda, lungi dall’essere sintomo della mancanza di nuove idee, è piuttosto riconducibile ad una sola malattia, molto più reale, la vecchiaia. Così come già accaduto al cinema prima di lui, il videogioco ha raggiunto la piena maturità. Ora il videogioco ha una storia, una storia del medium, fatta di prodotti che, a prescindere dalla loro qualità oggettiva, hanno avuto un peso nel contribuire a creare il percorso che ci ha condotto fin qui. E quando un mezzo di comunicazione ha una storia, comincia ad acquisire consapevolezza e a diventare sempre più egoriferito, a parlare di se stesso, portando così al fenomeno dei remake.

Chiariamo, non sto parlando della riproposizione, con scuse ogni volta differenti e spesso legate alla qualità grafica, di prodotti usciti l’altro ieri, che hanno lo stesso sapore e appetibilità di una penna al pomodoro cucinata l’altroieri. Io parlo di rifacimenti (prima si diceva così) di opere con un reale valore storico che, tra l’altro, giocate a distanza di anni, risultano in un’esperienza non necessariamente piacevole, soprattutto per quelli che d’abitudine non bazzicano il retrogaming. Sarei disonesta se non confessassi che, quando ho visto il gameplay di Shinobi: Art of Vengeance, il mio primo pensiero è stato “Oddio, adesso non riuscirei mai a giocare a Shinobi (quello originale)”. Dedicandomi al retrogaming, soprattutto con mio figlio, con cadenza costante, ho notato che sono in realtà poche le opere che hanno vinto la battaglia del tempo. Molti dei titoli oggi considerati fondamentali per l’evoluzione del mezzo, e che quindi andrebbero sperimentati di prima mano per poter essere a tutti gli effetti conscious gamer, sono ingiocabili. In questo senso i remake, quelli fatti nel rispetto dell’opera originale, sono lo strumento paideutico più adatto per avvicinare i gamer contemporanei a prodotti che altrimenti verrebbero liquidati immediatamente e con ingiusta superficialità. Magari non tutti i ragazzi che giocheranno ad Art of Vengeance finiranno per scaricare un emulatore e giocare a Shinobi, ma di certo ne rimarranno incuriositi e si documenteranno per scoprirne l’origine. Non è molto, ma è pur sempre una piccola battaglia vinta e un punticino in più acquisito a vantaggio del conscious gaming.

E poi, sì, tutto questo sproloquio è solo un lunghissimo pretesto per dirvi quanto vorrei giocare a Shinobi: Art of Vengeance, tipo domani. Leggilo gratis in versione impaginata e sfogliabile sul numero 10 di V – il mensile di critica videoludica

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