La città proibita Recensione: un wuxia di vendetta e romanità
Terzo film di carriera (dopo i sorprendenti e acclamati Lo chiamavano Jeeg Robot e Freaks Out) per il romano Gabriele Mainetti classe 1976, La città proibita ( distribuito da PiperFilm) mescola ispirazioni e intuizioni prettamente orientali con la romanità più verace, in una storia di vendetta assai coreografica e, a suo modo, emotivamente toccante. Il […] L'articolo La città proibita Recensione: un wuxia di vendetta e romanità proviene da Vgmag.it.


Terzo film di carriera (dopo i sorprendenti e acclamati Lo chiamavano Jeeg Robot e Freaks Out) per il romano Gabriele Mainetti classe 1976, La città proibita ( distribuito da PiperFilm) mescola ispirazioni e intuizioni prettamente orientali con la romanità più verace, in una storia di vendetta assai coreografica e, a suo modo, emotivamente toccante. Il film prende spunto dalla tremenda politica del figlio unico, introdotta in Cina nel 1979 per tenere sotto controllo e pianificare le nascite, e secondo cui ogni famiglia poteva avere massimo un figlio, per non incorrere in pesanti sanzioni. Questa legge, poi abolita definitivamente nel 2013, è il “movente” su cui il regista romano costruisce la (sua) storia di vendetta e lungo cui si sviluppa l’intera parabola narrativa del film.
La politica del figlio unico
Siamo nella Cina del 1979 e Mei (la rivelazione Yaxi Liu) è la secondogenita di una famiglia cinese, dunque costretta a nascondere la sua esistenza – di fatto “contro legge” – tra le pareti di un armadio, a differenza della sorella maggiore Yun, che avrà invece la possibilità di vivere la sua vita alla luce del sole. Eppure, Mei, bambina e poi ragazza schiva e determinata, continuerà a vivere la vita di fuori nel riflesso dei racconti della sorella, senza però smettere di apprendere ogni dettaglio e segreto del Kung fu, e delle arti marziali, dal padre. Tutti elementi che contribuiranno a rafforzare il suo carattere e a nutrire la sua determinazione, trasformandola in una donna alla necessaria ricerca di vendetta, e – anche – in una temibile guerriera.
Anni dopo, a metà anni novanta, Mei si ritrova dunque a Roma, nel quartiere Esquilino fortemente contaminato dalla popolazione asiatica e cinese in particolare, e dove a contendersi l’egemonia della piazza (Vittorio) sono il ristorante cinese La città proibita di Mr. Wang e lo storico locale da Alfredo (Luca Zingaretti), che prende il nome dall’omonimo proprietario (sparito in circostanze misteriose insieme a una giovane ragazza), e rimasto dunque in gestione al figlio Marcello (Enrico Borello) e alla moglie Lorena (Sabrina Ferilli). In una realtà romana verace e a tratti feroce, fatta di scontri e lotte intestine per il potere di strada, in cui la fa da padrone anche lo storico amico di Alfredo e famiglia Annibale (un iconico Marco Giallini), Mei dovrà muoversi agilmente e astutamente nell’ombra per seguire le tracce della sorella perduta, fuggita a Roma in cerca di una “svolta” per la vita di entrambe. Ma, durante le sue “vacanze romane”, Mei farà anche l’incontro con Marcello, costretto a fare il cuoco nella cucina del locale del padre pur di non far fallire l’attività. Tra i due sarà subito scontro: di etnie, di ideali e perfino di strategie di vita. Eppure, poco alla volta, la (per nulla dolce vita romana – se non nel suo saper poi sempre svelarsi in una bellezza senza rivali) riuscirà ad avvicinare un po’ la Cina di Mei alla Roma di Marcello.
La vita è bella, nonostante, tutto, e ci sorprende sempre
Trarantiniano per ispirazione e vocazione (Kill Bill è il primo film che viene in mente assistendo ai 134 minuti di vendetta al femminile che sono il cuore pulsante del film), ma poi anche nostalgico e d’atmosfera e con tante altre ispirazioni orientali e non (le atmosfere dense e soffuse di Wong Kar-wai, il senso forte di vendetta nella vendetta alla Kim Ki Duk), La città proibita è un coinvolgente affresco super-coreografico che mescola ideologie e umori molto diversi tra loro per farli convogliare in un racconto di (pace) potenziale che passa attraverso la lotta (per sé stessi e per i propri fondamentali diritti). L’opera terza di Mainetti brilla per bellezza visiva, trainata dall’atmosfera sempre soffusa di un rouge et noir incontaminato e da una protagonista agile, magnetica e incredibilmente perfetta in ogni suo sguardo e gesto, e una semplicità narrativa che trova il suo strumento migliore nella commistione tra oriente e occidente, tra l’austero proibizionismo cinese e il criminoso libertinismo romano. “Qui tutto è permesso, e niente è importante, da noi è il contrario…” affermerà a un certo punto Mr. Wang riassumendo in breve lo scontro culturale e ideologico che va in scena nel film, ancor prima di quello umano e fisico.
Aggressivo, muscolare e feroce da un lato, La città proibita vince poi però la sua partita nel suo esser capace di restituire cuore anche a una vicenda così drammatica che parte da condizioni di estrema privazione di libertà (tanto per Mei chiusa tutta la vita in un armadio quanto per la sua controparte romana Marcello, finito per chiudersi in una cucina). Mainetti regala al film dei personaggi combattivi ma fondamentalmente buoni, dove anche il più duro (l’Annibale del magistrale Giallini) alla fine cede alla sua parte più fragile, emotiva, di riconciliazione famigliare. Perché in fin dei conti quest’ultimo film di Gabriele Mainetti è una vibrante storia di tante famiglie, ognuna diversamente immersa nel proprio dolore, come diceva Tolstoj, ma poi capaci (in qualche modo) di trovare l’escamotage verso la via della luce, in specularità con la difficile parabola di Mei, determinata a guadagnare la vita fuori da quell’armadio. Dunque una vendetta dura e ostinata, ma che poi alla fine ripiega e si risolve su sé stessa, diventando sostanzialmente lotta – e resilienza – per i propri diritti (perfino il diritto naive di Alfredo di vivere una vita diversa da quella oramai scritta per lui). Un film di luci e ombre, che mescola tragico e magico, e che fonde lo yin e lo yang di cui narra nella mutevole bellezza della città eterna in cui si muove.
Alla sua opera terza, La città proibita in uscita il 13 marzo con distribuzione PiperFilm, il romano Gabriele Mainetti mette in piedi un racconto un po’ meno “fantasioso” dei suoi due precedenti per parlare invece di realtà sociali proibitive (la Cina) e realtà multietniche non sempre virtuose (la Roma del quartiere Esquilino). Un film elegante e poliedrico, che mostra molti volti e umori diversi e che fonde il suo animo prettamente visivo e coreografico a una narrazione semplice, ma mai così scontata, che si fa strada tra il senso e di vendetta, e la voglia di pace, l’istinto combattivo e quello di salvaguardia (di sé stessi e della propria prole). Il tutto, coadiuvato da un grande cast dove spiccano la maestosa Mei (la rivelazione Yaxi Liu, una donna esile, ma di agilità e profondità magnetiche), e l’istrionico Annibale di Marco Giallini (in una delle sue performance più profonde e anche dolorose). Un’opera che senza dubbio conferma la mano capace di Gabriele Mainetti e aggiunge un tocco “esotico” alla sua breve ma già ricca e solida filmografia.
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