Queer Recensione: un viaggio psichedelico alla ricerca di sé stessi

Adattamento dell’omonimo romanzo semi-autobiografico dello scrittore statunitense William Burroughs dal titolo Queer (in italiano Checca – scritto tra il 1951 e 1953, ma pubblicato solo nel 1985 perché considerato troppo “omosessuale” e scandaloso), l’ultima fatica cinematografica di Luca Guadagnino, già presentata allo scorso Venezia 81 e in arrivo nelle sale il 17 aprile prossimo (distribuzione […] L'articolo Queer Recensione: un viaggio psichedelico alla ricerca di sé stessi proviene da Vgmag.it.

Apr 13, 2025 - 13:25
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Queer Recensione: un viaggio psichedelico alla ricerca di sé stessi
Queer

Adattamento dell’omonimo romanzo semi-autobiografico dello scrittore statunitense William Burroughs dal titolo Queer (in italiano Checca – scritto tra il 1951 e 1953, ma pubblicato solo nel 1985 perché considerato troppo “omosessuale” e scandaloso), l’ultima fatica cinematografica di Luca Guadagnino, già presentata allo scorso Venezia 81 e in arrivo nelle sale il 17 aprile prossimo (distribuzione a cura di Lucky Red), è il film più intimo e personale del regista palermitano, una sorta di rilettura a specchio di un libro che si è rivelato decisivo in anni salienti per la formazione identitaria del regista. Un’opera per molti aspetti imperfetta, o semplicemente meno bilanciata di altri lavori, capace però di condensare emozioni e sensazioni finemente e fieramente personali, e di fonderle insieme in un viaggio emozionale e psichedelico alla ricerca di sé stessi, del proprio io e della propria verità (sessuale, ma non solo).

Queer
Guadagnino ci restituisce un Daniel Craig molto diverso da come siamo abituato a vederlo solitamente.

Come, as you are

Città del Messico, anni ’50. Il quarantenne William Lee (Daniel Craig) è un espatriato (fuggiasco) americano, pistola fissa nella fondina, che si aggira ramingo per i locali della capitale messicana sempre preda delle sue numerose dipendenze (fumo, alcol, droghe e sesso), e alla ricerca ossessiva di un qualche prestante, sufficientemente disinibito, ragazzo da portare a letto. Una vita sbandata e senza alcun reale obiettivo, che fa di Lee una sorta di lupa verghiana vittima del suo perenne e consumato desiderio. Almeno fino a quando il suo sguardo non si poserà sul corpo del giovane Eugene Allerton (lo statuario Drew Starkey). Bello, algido e talmente inafferrabile da rendere indecifrabile anche la sua inclinazione sessuale (Queer o no? è la domanda che – come mantra – farà da fulcro e motore all’intera narrazione), Eugene Allerton diventerà per William Lee pura ossessione. Deciso a legarlo a sé con ogni mezzo e stratagemma, Lee convincerà infine il ragazzo a partire con lui per il Sud America e ad addentrarsi fin nei meandri della giungla ecuadoregna, alla ricerca di una prodigiosa pianta dal nome Yage capace di promuovere la telepatia e rendere (forse) più accessibili i pensieri altrui (nello specifico, quelli di Allerton, che Lee desidera fare suoi più di ogni altra cosa). Ne seguirà un viaggio turbolento, “disincarnato”, tra crisi d’astinenza, sesso e psichedelia, una sorta di discesa agli inferi propedeutica (forse) alla riconciliazione con sé stessi. Ma anche un viaggio, quasi sospeso, tra la vita e la morte e lungo il confine labile della fedeltà a sé stessi, giù nel profondo della vertigine di chi siamo davvero e non dovremmo mai aver paura di essere (Come as you are, come cantavano i Nirvana).

Queer
Drew Starkey e Daniel Craig in una scena di Queer.

Un cocktail percettivo ed emozionale

In un film suddiviso in tre capitoli più l’epilogo, Queer (termine che include e integra una gamma di accezioni ben più ampia di quella strettamente sessuale) prende a prestito la matrice biografica ma anche filosofico-letteraria del romanzo di Burroughs per adattarla a un racconto per immagini che vive sostanzialmente di due fasi: l’indagine sul discorso sessuale e amoroso in chiave Queer, e il viaggio psichedelico nel desiderio di conoscere ed entrare in contatto con sé stessi e il proprio io più profondo. E se nella prima parte a dominare la scena sono le trame fitte di tensioni e pulsioni veicolate da William Lee (un Daniel Craig scavato, magnetico e totalmente immerso nel suo ruolo), nella seconda parte il registro narrativo cambia, subendo una cesura netta che introduce atmosfere ben più immaginifiche, d’ispirazione surrealista a tratti quasi “lynchiana” (tra proiezioni, illusioni, e scissioni corporee). Il movente ispiratore è qui molto forte, dichiaratamente personale (forse troppo, ed è questo elemento a condizionare in parte l’equilibrio complessivo dell’opera), e viaggia spedito nella sospensione di pensieri, tra psicosi, corpi avvinghiati e il tentativo esasperato di (s)fuggire a una solitudine che in fondo domina un po’ tutti i protagonisti del film (uno scenario totalmente maschile dove la figura femminile compare per fare da sfondo – l’amica di Allerton – o da specchio – in proiezioni incestuose – alla narrazione).

Eppure, se nella prima parte molto corporea, ma anche sentimentale, riflessiva e pensosa, la cifra stilistica di Guadagnino (cha abbiamo conosciuto e amato con opere come Call me by your name, Challengers ma anche con il più “orrorifico” Bones and All) emerge anche in termini di significato, nella seconda parte ben più lisergica (quasi un flusso di coscienza sensoriale e creativo del regista) si fa più fatica da spettatori ad aderire alla narrazione. La perdizione umana metaforizzata dal viaggio psicotico nella giungla allontana il film da uno sguardo potenzialmente condivisibile e finisce con il (con)fondere e mescolare troppo indistintamente le mille emozioni e sensazioni che Luca Guadagnino affida, visceralmente, al suo lavoro (il nono della sua intensa filmografia). In questa prospettiva, “disincarnata” più che Queer, come afferma più volte lo stesso protagonista del film, il sentimento estremizzato tende a prevalere sul senso generale dell’opera e a trasferire lo smarrimento della storia anche nella capacità percettiva dello spettatore. Un’opera viva e intensa ma anche ondivaga e destabilizzante, dunque, che resta comunque forte nei suoi tratti primari e nelle suggestioni, grazie all’aura magnetica dei suoi due protagonisti (Craig in primis), alla trainante e ricca colonna sonora, e al forte spirito motivazionale che impregna l’intero arco narrativo del film. Probabilmente non il lavoro più riuscito di Luca Guadagnino, ma di sicuro uno dei più intimi e forse “necessari” della sua intera filmografia.


Per il suo nono film da regista Luca Guadagnino presenta Queer (già transitato per il Festival di Venezia 2024 e ora in uscita nelle sale italiane il prossimo 17 aprile distribuito da Lucky Red), opera molto intima e personale, liberamente ispirata all’omonimo romanzo anni ’50 del controverso scrittore statunitense William Burroughs. Un film ambivalente che traspone su schermo tutti i contrasti, le contraddizioni e il senso latente di inadeguatezza del romanzo cui s’ispira. Un’opera che da un lato – nella prima parte – fa emergere il suo grande lato erotico e seduttivo (anche grazie alle interpretazioni affiatate e intense dei due protagonisti assoluti Daniel Craig e Drew Starkey) cavalcando la cifra stilistica ben nota del regista siciliano, e dall’altro tende a far smarrire lo spettatore nelle trame fitte, immaginifiche e lisergiche della sua componente più surrealista, molto presenti nella seconda parte.  Nel complesso, un’opera polivalente e dalle tante letture (più o meno personali). 


 

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