Deep sea mining, danni agli ecosistemi visibili dopo più di 40 anni
Un recente studio ha analizzato il più grande giacimento di minerali preziosi scoperto nei fondali oceanici.
Abbiamo già avuto modo di affrontare il tema delicato del deep sea mining, una pratica che prevede l’estrazione di minerali - tra cui manganese, cobalto e rame - dai fondali marini. Finora la problematica principale legata a questa pratica era la poca conoscenza dei danni che essa arreca agli ecosistemi marini, come:
- perdita di biodiversità
- impatto negativo sulla pesca e sulle risorse marine
- inquinamento acustico che colpisce i mammiferi acquatici
- possibile rilascio di sostanze tossiche nell’ambiente
- diffusione di sedimenti
Tuttavia, ad oggi abbiamo delle certezze: il deep sea mining danneggia la vita marina per decenni. Nel 1979 furono svolti dei test di estrazione mineraria dai fondali marini e i ricercatori hanno scoperto che il sito di estrazione presenta livelli più bassi di biodiversità rispetto alle aree circostanti a distanza di 44 anni.
IMPATTO AMBIENTALE DEL DEEP SEA MINING
Un recente studio condotto da diversi enti di ricerca britannici, tra cui il National Oceanography Centre di Southampton e il Natural History Museum di Londra, ha analizzato il più grande giacimento di minerali preziosi scoperto nei fondali oceanici. La ricerca, pubblicata su Nature, si è focalizzata sulla Clarion-Clipperton Zone (CCZ), un'area di oltre 6 milioni di km² situata tra Messico e Hawaii.