Until Dawn – Fino all’alba Recensione: l’inerzia della sofferenza

Until Dawn – Fino all’alba è l’adattamento dell’omonimo videogioco PlayStation, tuttavia i suoi contenuti narrativi non seguono per nulla la traccia originale, puntando piuttosto su di una trama inedita vergata da Gary Dauberman, scrittore il cui nome è associato a produzioni giudicate spesso dai critici come mediocri. Prodotto da Sony Productions e distribuito in Italia […] L'articolo Until Dawn – Fino all’alba Recensione: l’inerzia della sofferenza proviene da Vgmag.it.

Apr 24, 2025 - 17:26
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Until Dawn – Fino all’alba Recensione: l’inerzia della sofferenza

Until Dawn – Fino all’alba è l’adattamento dell’omonimo videogioco PlayStation, tuttavia i suoi contenuti narrativi non seguono per nulla la traccia originale, puntando piuttosto su di una trama inedita vergata da Gary Dauberman, scrittore il cui nome è associato a produzioni giudicate spesso dai critici come mediocri. Prodotto da Sony Productions e distribuito in Italia da Eagle Pictures, il film è stato affidato a David Sandberg, regista noto ai fan dell’horror low-budget e a chiunque abbia visto Shazam!. Se vi sembra che le premesse non siano positive, avete ragione.

Non è importante che vi ricordiate i nomi dei personaggi o i rapporti che li uniscono. Ambo i fattori sono pressoché irrilevanti.

Until Dawn – Fino all’alba, un retaggio dubbio

Come prodotto digitale, Until Dawn difficilmente può essere considerato il volto di PlayStation. Il grande pubblico non ne ha mai sentito parlare, ma anche gli estimatori del genere si trovano spesso ad ammettere che il gioco rappresenti un’esperienza divertente, ma gravata da profondi limiti. Si tratta di fatto di uno “slasher movie” in cui i gamer hanno l’occasione di modificare a grandi linee le scelte effettuate dai malcapitati sopravvissuti. Idealmente, l’obiettivo è quello di rigiocare l’avventura fino a decodificare il percorso che permette all’intero gruppo di sopravvivere, raggiungendo l’epilogo migliore.

Il videogame è poco più di un lungometraggio interattivo, con attori della caratura di Rami Malek e Peter Stormare che danno vita a personaggi che hanno decisamente un alone filmico, ma che funzionano solamente in una prospettiva videoludica. L’opera è godibile perché chi ha il controller in mano ha il potere di influenzare il contenuto degli avvenimenti, non certamente per la trama, la quale è anzi parecchio pacchiana. In altre parole, è difficile giustificare una conversione cinematografica del videogioco, ancor più se si considera che l’ultima fatica di Sandberg finisce con il gettare alle ortiche l’ambientazione, la struttura narrativa e gran parte del cast per perseguire una direzione nuova. Del gioco originale non sono rimasti che alcuni rimandi generici e un immaginario mitologico che, però, non è giustificato concretamente dalle novità introdotte. Anzi, gli sporadici richiami al materiale di riferimento finiscono perlopiù a creare attrito e inconvenienti.

until dawn
Gli effetti tendono a essere grotteschi e ben fatti, ma spesso non sono funzionali alla trama.

Un R-Movie, ma leggero

Fermatemi se l’avete già sentita: un gruppo di adolescenti si ritira in una casupola sperduta in mezzo ai boschi, quindi si trova al centro di un indicibile orrore. A guidare il team dei cinque sventurati di turno è Clover (Ella Rubin), la quale ha deciso di esplorare gli ultimi luoghi in cui è stata avvistata un anno prima sua sorella, poi scomparsa. Perché attendere dodici mesi prima di compiere un simile viaggio? Vi state già facendo troppe domande, il film non è così profondo da intavolare una qualsiasi forma di logica elementare.

Decisa a raggiungere il suo obiettivo, Clover trascina i suoi amici in una cittadina che è l’epicentro di decine di casi di persone scomparse e che risulta circondata da un’aura soprannaturale. Varcato il confine del centro urbano, i giovani si trovano prontamente incastrati in un loop temporale che li forza a rivivere a oltranza la notte del loro arrivo. Una notte che è immancabilmente destinata a concludersi con morti orribili e dolorose sevizie. L’unica loro possibilità di fuga è quella di resistere fino all’alba, così da rompere finalmente il ciclo di sofferenza.

Questa ricorrenza temporale non è però “come nei film”: gli avvenimenti non si ripetono, ma assumono sempre forme diverse, con il risultato che i protagonisti non sono nelle condizioni di imparare troppo dai loro errori, ancor più perché le memorie delle loro esperienze passate tendono a essere annebbiate, quasi fossero frutto di un sogno. A peggiorare ulteriormente la situazione, c’è il fatto che i ragazzi devono uscire dall’incubo il prima possibile,  altrimenti rischiano di mutare in mostri cannibali, pronti a banchettare con le carni dei futuri sventurati che si avventureranno nella città.

L’elemento più entusiasmante del film? Peter Stormare torna a prestare le proprie fattezze alla saga di Until Dawn.

Ciclo e riciclo

David Sandberg è un maestro nel trarre il meglio dai budget risicati. Ecco dunque che gli effetti pratici della pellicola sono finiti giustamente al centro della campagna marketing di Until Dawn – Fino all’alba, trasformandosi nel punto focale dell’intera esperienza. Un po’ di protesi, giochi di luci e ombre ben progettati, un’ambientazione cupa e sfaccettata: gli ingredienti sono tutti di buona qualità. Peccato che siano arrangiati alla bene e meglio, senza alcuna forma di logica coesa, soprattutto a livello narrativo.

La pellicola contiene al suo interno wendigo, giganti colossali, assassini mascherati, streghe e psichiatri ultraterreni, elementi che in buona parte vengono attinti direttamente dal videogame originale o dal suo sequel spirituale, The Quarry, ma che hanno poco o nessun senso nel contesto effettivo della vicenda di Clover. In extremis, la pellicola cerca di contestualizzare il tutto fornendo una lettura allegorica, ovvero suggerendo che l’intera opera sia da leggere come una metafora arguta sulla depressione, sulle tendenze autodistruttive e sul come l’annichilirci possa danneggiare anche coloro che ci sono più cari. 

Si tratta di una spiegazione su cui si sono retti diversi horror topici – si pensi a Silent Hill 2 -, ma il copione di Until Dawn – Fino all’alba non tratteggia quegli elementi che sono essenziali a far funzionare questa formula. I mostri non sono un riflesso della mente di Clover, sono un richiamo astratto agli antagonisti di un videogame ormai vecchio di dieci anni, un citazionismo colmo di orpelli che non riesce a compensare l’assenza di sostanza, a prescindere dalle giustificazioni posticce che vengono fornite allo spettatore. 

Until Dawn – Fino all’alba
A spasso per ambientazioni buie e dismesse armati solo di torcia? Non si mette bene…

Un progetto malriposto

Da che hanno visto la luce del sole, gli adattamenti cinematografici tratti dai videogame sono sempre – sempre – stati un azzardo di proporzioni epiche. Interessi contrastanti fanno spesso sì che il regista, gli autori, i produttori ei detentori delle proprietà intellettuali finiscano spesso con il battibeccare, cannibalizzando il prodotto finale perché questi finisca con lo sposare gli interessi di tutti e nessuno. Approfittando della sua duplice posizione nel mercato del cinema e dei videogame, Sony sta cercando di attingere agli immaginari PlayStation per massimizzare il valore dei suoi brand. Senza però ottenere troppo successo.

È lecito credere che alcune ridondanze presenti in Until Dawn – Fino all’alba siano frutto del passaggio del copione da Blair Butler, l’autrice originale, a Gary Dauberman, ma resta il fatto che la pellicola non riesca in alcun modo a richiamare l’opera originaria. Anzi, sotto molti versi sembra più che altro voler occhieggiare al più celebre e popolare Dead by Daylight, imponendo una formula che trasforma ogni notte vissuta dai protagonisti in una “partita” alimentata da regole e avversari diversi, incurante di giustificazioni o pretesti. Puro gameplay, ma senza gameplay.

Letto in astratto, il film risulta ancora più povero di contenuti, poiché attinge a un archetipo ben noto senza però reinventarne il topos in maniera creativa o stimolante. Opere come l’ottimo Quella casa nel bosco, l’inaspettato Midsommar e il brioso The Final Girls hanno ormai dimostrato che, con un po’ di intelligenza, sia possibile sovvertire le aspettative in maniera radicale ed elaborata. Until Dawn – Fino all’alba non solo non presenta alcun barlume di intelletto, ma risulta scarso anche sul frangente dell’intrattenimento puro. Evitando la dimensione del torture porn, la pellicola non può neppure giocare nel campo dei vari Final Destination e Terrifier, riducendosi a banale bambagia filmica


Until Dawn – Fino all’alba non può considerarsi “brutto”, alle sue spalle c’è una certa dose di talento tecnico, eppure il film è l’apoteosi dell’inutilità. Una trama sconnessa, personaggi mal scritti, scarsa aderenza al materiale di riferimento, fanno sì che sia difficile trovare agganci che possano spingere lo spettatore a immergersi nella pellicola e a provare empatia verso i suoi protagonisti. Si tratta di un film che si fa guardare pigramente, appoggiandosi a inerzia e mediocrità, ma proprio questa rilassatezza intellettuale fa sì che l’opera sia inceriminiosamente destinata a essere dimenticata non appena finiscono i titoli di coda. Ancor più perché è di scarso intrattenimento.


 

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